Posts

Adelaide – Ultima Parte

today25 Ottobre 2022 20

Sfondo
share close
Questo spazio potrebbe essere tuo. Contattaci per informazioni
Questo spazio potrebbe essere tuo. Contattaci per informazioni

[…] Vi siete persi la prima puntata? Potete leggerla qui !

“Ottone” mi disse solo questo mia madre e non le fu necessario aggiungere altro. Ne avevamo già persi due con quel nome e non potevamo rischiare un ennesimo fallimento che sarebbe stato imputato unicamente alla parte sinistra della nostra natura muliebre.
Un mio cugino materno stava cercando di sottrarci la tutela sul piccolo Ottone e, non celando le sue mire al suo trono da infante, lo rapì. Dio ascoltò i nostri implori incessanti, così che i grandi uomini dell’Impero giurarono fedeltà: erano disposti a morire per non venire a meno al loro giuramento verso mio nipote. All’orlo di una rivolta, riuscii a riconsegnare Ottone in braccio a sua madre. Peccammo di hybris, ci sentimmo meglio della Madre di Dio. Eravamo riuscite a far in modo che un uomo e i sui nefasti si sottomettessero a tre donne.
Enrico, mio cugino, passò alla storia come Enrico il Litigioso. Era sposato con quella gallina di Gilda di Borgogna, una mia cugina materna. Riuscii a convincere gli altri nobili di lasciargli in mano almeno il Ducato di Baviera. Aveva quattro anni in più di me e avevo passato abbastanza tempo della mia vita con lui per sapere che non aveva mai avuto un’indole socievole. Era un guerriero e amava le sfide. Da bambini giocavamo insieme. Un giorno uccise una lucertola davanti ai mie occhi, squartandola da coda a testa con un coltello. “Tu non ne sei capace!” mi sfidò. Gli presi il coltello dalle mani e imitai il suo gesto di violenza gratuita senza proferire parola, nel silenzio delle cose che non andrebbero fatte o dei riti iniziatici. A lui piaceva sfiorare con le dita il male, per ricordarsi da che lato è meglio stare per non finire all’Inferno.

Sentii bussare alla mia stanza. Fuori dal monastero volavano le lanugini dei pioppi, sembrava neve. “Il Duca di Baviera” salutai il mio ospite. “Cugina” rispose con un mezzo inchino. Non era bello, ma possedeva il fascino indiscreto della strafottenza. Sapevo cosa pensava lui e cosa pensassero tutti gli uomini di me: io non possedevo la leggerezza femminile e guidavo eserciti senza mai perdere. Enrico fece per prendere una mosca con il palmo della mano; io aprii la finestra e me ne liberai senza ucciderla.
“Come sta la zia Adelaide? Non le manca la tempra dei nostri rigidi inverni?” cercò di fare conversazione. Avrei voluto rispondere che a mia madre delle stagioni non importava nulla, ma stetti zitta. Le suore possono permettersi di non rispondere e gli uomini non riescono ad accettare di prendere ordini da una donna.
“Certo, povera zia, con quella Stefania non dev’essere facile…” continuò a cercare di provocarmi. “Teofano!” lo corressi. Sembravo quasi lei, ma la cattiveria senza damaschi non è seducente. “Ho sentito dire” si interruppe per ridere beffardo “Ho sentito dire che il tuo povero fratello non chiese l’estrema unzione nel letto sul punto di morte…”. Mandai giù un sorso d’acqua e la fiele. “Il Buon Dio ti perdonerà, cugino! I morti si lasciano riposare in pace” lo ammonii da Badessa. “L’invidia è un vizio capitale uguale e contrario alla superbia. Vero, cugina?” la prese alla larga.
“Come ti posso aiutare, Enrico?” cercai di arrivare subito al sodo perché quella farsa mi stava facendo venire i nervi. “Tu mi hai tolto il Regno per darlo a una cagna bizantina!” fu laconico. “Il Regno è di mio nipote e tu hai accettato di tenerti la Baviera. Pensi che sia stato facile convincere gli altri a non lasciarti senza Terra?” gli ricordai. Lui fece spallucce. “Ho cambiato idea!” disse. “E sentiamo? Cosa vorresti?” gli domandai. “La parità. Tu mi hai tolto l’onore e io lo tolgo a te!”. Enrico non fu mai un uomo di molte parole.

Fuori si alzò il vento. Avrei dovuto indignarmi, arrossire e invece sorrisi e basta. Successe tutto in silenzio, come il nostro vecchio gioco sadico con la lucertola. Enrico mi insegnò che dentro ai calzoni di un uomo non c’è solo un’arma pronta a ferire e mi legò a lui con un segreto.

Da suora, mi era noto che tutti i peccati si pagano. Due anni dopo, dalla Francia, dopo anni di menefreghismo, si rifece sentire la mia sorellastra, Emma. Aveva ormai perso il suo fascino e non era sfiorita per la vecchiaia, più raggrinzita, marcendo. Suo figlio ventenne aveva preso le redini del potere dopo la morte del padre e la sua incapacità nel prendersi le sue responsabilità gli avevano valso l’epiteto di Fannullone. Nessuno gli aveva mai insegnato che i panni sporchi si lavano in casa, perciò trovò astuto incolpare sua madre e il suo amante di aver avvelenato il papà, che sicuramente avrebbe fatto meglio di lui. Emma mi chiese di intervenire e dimostrare la sua innocenza, solo che io non le credevo fino in fondo. Ancora accecata dalla gelosia, sospettai anche io di un sotterfugio
architettato con il suo vescovo poeta. Le consigliai di chiudersi in convento, per sicurezza. In realtà, non la volevo proteggere, la volevo punire. Non era una donna abituata alle ristrettezza, alle regole e alla preghiera, infatti morì presto e suo figlio non la perdonò. Evidentemente, l’uomo che avrebbe dovuto difenderla, non lo aveva mai fatto abbastanza. Perché avrei dovuto farlo io?

A ruota, anche Teofano si ammalò e in breve tempo lasciò questo Mondo. I suoi funerali resero gloria anche a mio fratello, che lei non aveva mai dimenticato o sostituito. Si era dedicata per portare la pace nell’Impero, anche sbattendo i pugni e rovinandosi le nocche, se necessario. Aveva insegnato ad Ottone che essere umani significa rispettare il cuore umano, fatto di vetro, che se si rompe diventa affilato. Mia madre rimase con lui fino al suo sedicesimo compleanno e poi lo lasciò regnare, certa che la reggenza di tre donne diverse e complementari gli avessero forgiato lo scettro pesante che era stato chiamato a portare. Ritornò in Germania e, per il resto della sua vita, si adoperò per i poveri e per i monasteri. Qualche volta, tra un viaggio e l’altro, passava a trovarmi.
“Mati, regnare non è una cosa per donne!” mi disse. Sollevai il sopracciglio, arrogante. “Non fraintendermi, non c’è cosa che una donna non sappia fare…” aggiustò il tiro. “Però?” ero curiosa. “Loro riescono a portare in giro il loro potere con la stessa facilità con cui portano in giro il gingillo che si beano di avere in mezzo alle gambe!” mi spiegò e io risi. “Lo so, figlia mia, il potere è pesante. Ti toglie il respiro. Il sonno. Il potere è un mostro che non ti lascia stare in pace!” si fece seria e materna. “Dio non ci dà mai croci che non possiamo portare!”. Quando volevo tranquillizzare le persone, tiravo sempre fuori le perifrasi religiose. “Dio ha scelto di farsi uomo e non donna!”. A mia madre era concesso anche bestemmiare.

Negli stessi anni morì anche Enrico. Gli chiesero di pentirsi. “Ho castrato il vescovo di Aquileia con queste mani!” confessò. Si inventò una sordida storia su un’ipotetica resa dei conti, un gioco territoriale tra uomini – in realtà, il vescovo aveva scoperto la nostra tresca. Prima di privarlo della sua mascolinità gli ricordò “Senza queste non ti distrarrai più con i problemi dei peccatori. Prega per noi!”. Io ero presente. Enrico si portò il mio, il nostro, segreto nella tomba. Ero presente anche al suo funerale e piangevo più di Gilda, sua moglie. Mia madre cercò di ammaccare. “Anche da bambini litigavano sempre, ma si volevano molto bene!”. Adelaide era una donna alla quale nulla sfuggiva, piuttosto era lei a lasciar correre, sulle storie che giravano su di me, su mio fratello, sui nostri vizi…
Enrico fu l’uomo che mi fece capire perché era un bene detestare tutti gli uomini, tranne lui.

Non provai mai più compassione, se ne avessi mai provata. Dopo la sua morte, mi scoprii addirittura bestia cacciatrice. Avevo ereditato la furia da mio padre, così come mia madre temeva.
Nella mia abbazia viveva Liudgarda. Il suo nome la descriveva piena di grazia, ma di Nostra Signora conosceva solo le litanie. Non avrebbe preso i voti, stava in convento per conservarsi, poi sarebbe stata consegnata al suo sposo. Mi misi d’impegno per conservare la sua verginità, ma la sua morale era già naturalmente corrotta. Era stata promessa a un certo Guarniero, uno spaccone nato da una madre bambina, tutto fisico e poco cervello. Siccome il padre di Liudgarda, convinto dalle mie benedizioni, annullò il matrimonio, lui venne a prendersela. Nel mio convento.
Ordinai ai miei uomini di trovarlo e ovviamente lo fecero. Si sarebbe fatto uccidere piuttosto che riconsegnarmela. Proposi che fosse Liudgarda a decidere. Lei mi guardò negli occhi con aria di sfida. Le piaceva rendermi la vita impossibile di giorno, si faceva odiare dalle altre novizie e poi si infilava nel mio letto di notte. Sapeva benissimo di essere la mia preferita e se ne approfittava. Con la sua voce assopita, quasi come quella di chi ha dormito troppo, mi rispose “All’inizio ho opposto resistenza, però ho capito che voglio rimanere con Guarniero!”.

“Ti ha costretta? Guarda che se lui… Io posso…” le feci capire che non era sola. Scosse la testa. No, non l’aveva presa con la forza. Mi si spezzò il cuore. Avrei preferito leccarle le ferite piuttosto che essere buttata via. Poi uscì anche lui dalla tenda del suo accampamento. Aveva radunato un gruppo di manigoldi suoi amici per la sua guerra di fidanzamento. Era baldanzoso come un porcellino che va verso il macello. Alzai una mano. “Frau Matilda!” ricambiò il saluto. “Vi chiedo scusa per il disturbo. Me lo dicono sempre che sbaglio i modi!”. Era calmo e sicuro. A me pulsava la giugulare. “Ma i miei intenti sono nobili, la sposerò!” mi comunicò. “Sempre se ve lo concederò!” lo dissi ridendo, ma ero seria. Lui rise sonoramente alla battuta. Gli mancava qualche dente perciò il suo giubilo risultava troppo rumoroso. “Ovviamente faremo una bella donazione all’abbazia!” aggiunse. Liudgarda si avvicinò a me e mi disse all’orecchio. “Ti conviene stare zitta, Matilda. Vuoi che tutti sappiano cosa succede nel tuo convento o ti basta vergognarti davanti alla Croce?”. Avrei voluto schiaffeggiarla, ma mi schiarii soltanto la voce, affinché tutti sentissero “Vi faccio tanti auguri!”. Sorrisero, convinti di aver vinto facile. Di sicuro, anche Guarniero conosceva la leggenda della suora che litiga con il cugino. “Ma a un patto. Mi chiederete scusa in pubblico a piedi scalzi!”conclusi a sorpresa. Lo fecero e, almeno in pubblico, li perdonai. L’umiliazione non poteva togliermi anche la dignità, così come mi era stato tolta la facoltà di poter amare, a me che non sapevo darmi mai solo a metà.

Sono passati tre anni. Mia madre si è spenta settimana scorsa. Mi è già stata data l’estrema unzione e sento la vita che si fa nitida e leggera. Attorno al mio capezzale non c’è nessuno a parte lei, Santa Adelaide, protettrice di quelli che se ne vanno. Libera nos a malo.

Non tutte le Principesse desiderano essere salvate dalla torre. *fine*

*Ascolta la nostra playlist LatoC su Spotify e condividila con i tuoi amici accoolturati!*

Scritto da: blog_user

Rate it

Post simili

Commenti post (0)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati con *


CM09 web radio & production

L’emittente dell’associazione
Channel Morbegno APS
Viale Stelvio, 43
23017 Morbegno (SO)

Questo spazio potrebbe essere tuo. Contattaci per informazioni
0%