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Heidi – Prima Parte

today1 Dicembre 2022 27

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Al piede d’una fila di monti dalle cime frastagliate che guardano minacciose giù per la valle dell’Alto Reno, c’è un paese come in Svizzera ce ne sono tanti: con la chiesa dal campanile a punta e la scuola, il mulino, il fabbro e il calzolaio. Quando il treno si ferma alla piccola stazione, il capotreno grida : “Mayenfeld!”

(Johanna Spyri in “Heidi”)

 

Non amo particolarmente la montagna. È strano perché da piccola non riuscivo a starne senza e mi ammalavo a starci lontano. Forse è proprio perché la montagna ha bisogno di quell’amore incorrotto che solo i bambini riescono a dare. Sto tornando a casa, se così si può dire.

La salita da Mayenfeld verso Dörfli per me ha dei rituali sacri. Il tragitto segue un tracciato perenne utilizzato dai contadini per la transumanza o caricare i monti, come si dice da queste parti. La mia lingua di battesimo ha poche parole, precise e con poche vocali. Nel luogo da dove arrivo io è necessario non consumare fiato e tenerlo per praticare agevolmente queste strade strappate a fatica alla natura impervia della montagna. Bisogna percorrerle seguendo il proprio ritmo interiore, in silenzio, senza avere paura del vagare dei pensieri.
Così, come la prima volta che mi ci sono arrampicata da bambina, comincio a disfarmi dal peso inutile dei miei vestiti – quelli che indosso per sembrare una signorina per bene – e comincio a salire di corsa e alla cieca per i prati puntinati del blu irreale delle genziane. Tira dritto, se sai già dove devi arrivare.

Io dovevo arrivare qui. Mi ci aveva portata mia zia Dete, la sorella di mia madre, quando a malapena sapevo pulirmi il moccio da sola. Non ci siamo mai sopportate. Non ci siamo mai capite, più che altro. Probabilmente, non ci abbiamo mai nemmeno provato. Mi ha sempre fatto notare che non c’è nulla in me di mia madre, del loro sangue, e che sono spiccicata a Tobias – lo chiama per nome, ma è mio padre. Ogni nostro diverbio si è sempre trasformato nella riesumazione dei motivi per i quali il matrimonio di mia madre fu motivo di preoccupazioni e attriti nella loro famiglia. Tobias non aveva una buona famiglia. Lei era scappata per stare con lui. Si era macchiata.
L’ultima volta che ho visto mia zia, un anno fa, le innumerevoli crepe che lo ferivano, hanno definitivamente fatto collassare il nostro rapporto. Nulla più ci lega oggi.
“Mia sorella non avrebbe approvato il tuo stile di vita, sembra che tu ti sia dimenticata da dove arrivi…”. Non la chiamava mai mia madre, eppure era così che viveva nei miei pensieri, anche se non ricordavo nemmeno il suo volto. “Oh, cara zia Dete” la contraddissi “Mi hai abbandonata con le capre a Mayenfeld. E sempre tu, quando l’hai ritenuto comodo per te, mi hai messa in casa dei Seseman. Secondo te non ti sentivo quando sparlavi di Franz con la cameriera stupida, Minette? Bavette? Tinette?”. Dete si guardava la punta dei piedi, rossa in viso. Io sferrai la mia stoccata.“Come lo definivi? Ah, un uomo irrisolto!”. Dete continuava a non parlare. “Perché? Perché ti aveva dato un
due di picche? Come tutti quelli che hai conosciuto?” raddoppiai la dose. “Heidi, sei ingiusta!” mi fece notare senza alzare lo sguardo e non senza aver ragione. Io continuai ugualmente a infierire. “Anche la Rottermeyer si è trovata qualcuno e invece tu sei rimasta da sola!”. Dete si alzò di scatto e mi lasciò da sola nella sala da tè in cui lei mi aveva invitata. Uscì dall’edificio in stile biedermeier con il fare borghese che entrambe avevamo appreso e copiato dalla gente di Francoforte. Il cameriere in livrea mi invitò con lo sguardo a fare lo stesso. Non si parla ad alta voce in un locale elegante, specie con quel rozzo accento svizzero. Odio Dete perché ha fatto in modo che la mia vita andasse così. Non che mi dispiaccia, ma avrei voluto più margine di scelta.

Non sono mai salita nessuna volta all’Alpe senza fermarmi da Brigitte, la mamma di Peter. La vedo già da lontano, è indaffarata con un bambino piccolo. Sventolo la mano, poi corro veloce per abbracciarla. “Heidi! Da quanto tempo!”. Sorrido. È passato davvero molto tempo. Non torno in Svizzera da… “Quanti anni ha questo bel bambino?”. Non torno da quando è nato il bambino di Peter e Klara. “Ne ha tre!” mi risponde Brigitte. “Fatti l’altro ieri, eh?” aggiunge rivolgendosi al cucciolo di umano che si sta nascondendo dietro la sua gonna. “Ah, sì! Questo lo sapevo! Infatti tuo nonno Franz ti manda questi dolcetti…”. Tiro fuori la scatola infiocchettata dallo zaino, l’unico bagaglio che mi sono portata appresso, quassù non serve il superfluo. “Basta vestirsi a strati” mi rammentava Brigitte quando ero piccola – tendenzialmente, io e suo figlio siamo cresciuti insieme. Me lo ricordo com’era stare qui in montagna, sembrava già un regalo una scatola senza niente dentro. Tant’è che ti trovavi spesso a chiedere agli adulti se la potevi aprire, come se fosse sbagliato. L’apro io per lui davanti ai suoi occhi. “Sono buonissimi, sono fatti di vaniglia, marmellata, mandorle e tantissimo zucchero. Le vedi queste ciliegie? Sono come i rubini della corona di un Re! Prendine uno! È buonissimo!”. Mento, non esiste cosa che detesto di più del Frankfurterkranz. Il bambino si volta verso sua nonna, per chiedere l’approvazione, e lei annuisce. Solo dopo questo gesto lui si prende uno dei dolci e lo mangia vorace, senza gustarlo.
“Entra Heidi, così ne mangi uno anche tu!” mi invita Brigitte. Non voglio entrare. Il solo pensiero che la sedia dove la sua vecchia madre cieca filava a memoria sia vuota mi toglie ogni tipo di appetito. Per lei, da Francoforte portavo i panini al latte che, a differenza del pane di segale, riusciva a inghiottire senza denti. “No, ti ringrazio. Non mangio dolci di mattina…” invento una scusa, anche se vengo buttata dentro la casa buia e umida di peso e con la stessa foga vengo fatta sedere al tavolo. Nelle case di montagna tutta la vita domestica riesce ad essere sintetizzata in un’unica stanza e in questa unica stanza le persone si sentono in obbligo di darti ospitalità. “Mangia questo, chissà che debolezza dopo tutto il viaggio che hai fatto! Ma mangi in città? Guarda come sei magra…”. Per non farle un affronto mastico a forza il formaggio di capra che mi ha messo davanti. L’ha tolto a quello che potrebbe mangiare lei. Il sapore acidulo e persistente mi fa venire la nausea. Soffoco il conato con un colpo di tosse. “Scusa, Brigitte. Mi sa che non sono più abituata…” cerco di scusarmi goffamente e lei mi guarda come, un tempo, guardavo anche io i forestieri, quelli che alla vita vera non ci sono avvezzi. Qui tutti guardano quelli che arrivano da fuori come degli stolti. Tutti, tranne Peter. Peter era un ragazzo con un bel sorriso al quale piacevano le capre, le ragazze bionde e, forse, io. Preferì le moine di Klara al mio selvaticume.

Cinque minuti dopo mi trovo già a casa del Nonno, l’unico vero uomo di questa storia. Mi ripeteva sempre, come un mantra, “Fai quello che vuoi, ma che tu non debba mai cercare il pane in casa d’altri”. Non si può dire che da mio nonno io abbia avuto un’educazione in senso proprio, però mi ha insegnato molto su come praticare il mestiere del vivere. L’Almöhi, lo Zio dell’Alpe, come tutti lo conoscevano in paese faceva timore a chiunque e perciò nessuno lo contraddiceva. Era un eremita, uno scorbutico e, prima di ritirarsi qui ai piedi delle rocce, amava giocare d’azzardo. Si diceva in giro che a Napoli avesse ucciso un uomo. Una volta gli chiesi conferma. Lui mi rispose che gli altri potevano dire quello che volevano, ma l’importante era quello che pensavo io. I gesti d’affetto di mio nonno sono sempre stati misurati, io il suo amore me lo sono guadagnato. La prima notte a casa sua, quando Dete mi consegnò a lui come un pacchetto, dormii nella stalla insieme alle capre. Ci siamo annusati prima di fidarci l’un dell’altro. Ma anche da lontano, l’ho sentito sempre vicino e ancora oggi è l’unico legame che mi attira verso casa. Io non mi fido di nessuno, ma fermamente non ho mai pensato che mio nonno potesse essere un assassino.
Suo figlio, mio padre, era morto a Bad Ragaz, sotto una trave mentre lavorava. Mia madre lo aveva seguito a ruota. Tanti dicono che per amore non si muore, che il cuore è solo un muscolo, ma a lei si era spezzato. Io sono cresciuta con un uomo al quale il cuore era stato spezzato e, nonostante questo, aveva continuato a battere. Spesso le persone molto forti sono anche le più sensibili. Ci avete mai pensato a quanto possa costare sentire ogni respiro scendere giù per i polmoni?

Quando vivevo qui il fienile era la mia stanza da letto, me l’ero scelta e il Nonno non l’aveva ritenuto pericoloso. Adesso non ne rimangono che le macerie annerite da quell’incendio scoppiato all’improvviso. Può succedere anche questo così vicini al cielo, da un filo di paglia può finire tutto inghiottito nelle fiamme. Basta un raggio di sole a mezzogiorno. Il Nonno aveva sentito abbaiare il cane. Nebbia jr. era il sostituto del Sanbernardo che mi aveva vista crescere. Gli aveva voluto dare lo stesso nome per fare rimanere un po’ di passato dentro al futuro, quando si era accorto che non ero più una bambina e doveva lasciarmi spiccare il volo. Lo aveva portato in salvo e poi si era accasciato a terra. Una settimana fa il Nonno è morto d’infarto. Sono corsa qui appena ho ricevuto il telegramma, come se la mia presenza potesse riportarlo in vita. Il cervello umano non accetta la morte di un caro, in qualche modo speriamo stupidamente che si possa ritornare dall’altro lato…

“Adelaide!”. Questa casa non è disabitata e la cosa mi rincuora. Una signora spigolosa e con gli occhiali mi abbraccia ricordandomi che, da essere umano, ho bisogno di calore umano.“Meno male che sei arrivata!”. Me lo dice con le lacrime agli occhi e, nonostante tutto, è l’unica  persona davanti alla quale mi concedo di piangere anch’io la scomparsa del Nonno.
Ci sediamo sulla panca di legno fuori dalla casa. L’aria frizzante sa di fieno e di fiori di lavanda. Il cuore mi batte all’impazzata.  All’improvviso, sento la mancanza del Nonno tra la gola e il naso.
“E’ arrivato il Sindaco ieri…” mi racconta. “Ma io gli ho detto “bisogna aspettare sua nipote”. Io, formalmente, non ero sua moglie!”. Le stringo la mano. “Stai tranquilla!” la rassicuro. Mi prendo una pausa per cercare di respirare meglio. Non la voglio turbare. “Sì, mi è venuto ad aspettare al treno. Mi ha detto che il Nonno dovrebbe essere trasferito al cimitero del paese…” le confermo. “Tu che vuoi fare?” mi domanda. “Hai fatto bene a farlo seppellire qui, qui è la sua casa, qui era il suo posto…” rispondo. “Ti ringrazio…” fa un sospiro “Mi sembra di averlo più vicino qui!”. Le stringo più forte la mano gracile, cresciuta in città. “Sono sempre stati tutti antipatici e guardinghi con lui giù in paese” chiudo il discorso . “Già, hai ragione! Il prete non si è nemmeno degnato di salire per celebrare il funerale…” mi informa. “Era troppa fatica…” sono ironica. “No, è perché la nostra unione non era benedetta dal Signore!” mi corregge. “Ma che si fottano!” concludo. “Misericordia, Adelaide! Le parolacce!” mi riprende. Dorotea Rottermeyer, la donna che mi ha insegnato tutto sulla mia vita di donna, è stata l’improbabile fedele compagna di mio nonno. Adelaide, invece, è il mio nome nobile. Heidi è il nome che mi ha dato mia madre. Significa brughiera ed è stato forgiato sopra di me alla mia nascita. Ero destinata ad avere qualcosa di incolto nella mia essenza.

Un’altra cosa è cambiata nella fisionomia della casa. Poco distante ne è stata costruita un’altra più piccola. Ne esce fuori una donna che chiama me e Dorotea a gran voce. L’avevo conosciuta diversa. Da ragazzina era delicata e la vita di montagna le faceva venire l’eritema. Poi si era sposata con Peter e si era scalfita, quasi corrosa. Fisicamente, non era più la Klara Seseman di Francoforte che avevo conosciuto io, la mia migliore amica. Quella che piangeva se non stavo con lei. Anche i suoi capelli biondissimi erano diventati più scuri, legati in una treccia che non vedeva il parrucchiere da anni. Eppure, dentro di lei, era rimasta quella bambina viziata alla quale era mancato qualcuno che le dicesse di no. Io ero cresciuta in mezzo alle capre, ma lei senza regole. Il mio mondo girava intorno ai tempi della natura, il suo attorno a lei. “Venite! È pronto!” ci chiama. Le è venuto anche l’accento svizzero. Io ci ho messo anni per togliermelo e ancora si ripresenta maleducato come un ragazzino troppo vivace per stare seduto al suo posto.

“Heidi! Bentornata! Mi dispiace molto per il Nonno!”. Annuisco per ringraziarla. Lei abbozza un abbraccio dal quale mi disancoro subito. “Quel tuo ritratto lo mostrava sempre orgoglioso…”. Si riferisce a un ritratto di un pittore francese in cui non mi mostro molto vestita e che ha destato lo scandalo nella mia famiglia. Il Nonno, alla fine, ci vedeva solo me, la sua nipotina che era cresciuta. Per lui ero bellissima perché assomigliavo a Tobias, suo figlio. L’aveva appeso sopra il camino e lo mostrava orgoglioso a chiunque – che, puntualmente, fingeva ammirazione arricciando il naso. A lei dà fastidio, più che altro, come suo marito guarda quel ritratto. È gelosa perché Peter è rimasto innamorato dell’Heidi bambina, che gli andava dietro per emulazione e che imitava quello che faceva lui perché lei non aveva mai visto nient’altro. Voglio cambiare discorso. “Bello tuo figlio, assomiglia a tuo padre!”. Klara sorride. “Trovi?” mi chiede. “L’ho visto giù da Brigitte e gli ho lasciato i dolci per il suo compleanno. Adora quella schifezza con le ciliegie candite che piace anche lui, a quanto pare!” le rispondo prendendo la curva larga. “Lo vedi spesso?” mi domanda con un velo di malinconia, quella che la riporta a sentirsi lontana da Francoforte. “Qualche volta! Il lavoro lo porta in giro, come sempre…” è una bugia bianca. “Come sempre!” ripete quasi rassegnata. Anche da piccola soffriva molto la sua mancanza. Entrambe non avevamo la mamma e questo ci ha unite. Ma Klara non aveva il Nonno. Forse è per questo che si è presa Peter, solo che poi se l’è pure tenuto.
Ci mettiamo a mangiare all’aperto polenta cotta nel paiolo sul fuoco, formaggio d’alpe, pane nero e a bere vino forte. Forse è vero, il mio stomaco non regge più i sapori semplici e genuini, tant’è che al primo boccone si ribella. Mi assento e vado a vomitare nel catino vicino alla fontana. Sto ancora cercando di riprendermi con un po’ di acqua fresca, quella dove un tempo mi ritempravo di primo mattino. Sento in lontananza Klara che sbraita con le serpi al seno. “Adesso è allergica anche alle nostre montagne la piccola scrofa!?”. Sorrido. Sapevo che il mio ritorno avrebbe scoperchiato il vaso di Pandora. E, per l’appunto, ce l’ho portata io la prima volta sulle sue montagne del cazzo!

Dorotea mi raggiunge trafelata. “Non ascoltarla, lo sai com’è…” cerca di riportare la pace. “La solita bambina viziata alla quale non si possono prendere i giocattoli!?” le chiedo stizzita. “Heidi…” cerca anche di ammansirmi. Non spesso mi chiama così, solo quando esagero. “Sai cosa me ne frega di Peter a me?” le ricordo il motivo della spaccatura tra me e Klara. “Peter è il tuo primo amore!” mi ricorda dandogli un peso che non vorrei. “Non c’era scelta quassù. O lui o un caprone!” minimizzo ironica. “Misericordia, Adelaide, non è il momento di scherzare!”. La guardo smarrita. “Hai vomitato, no?” le sue non sono mai solo domande. “Sì, da stamattina ho la nausea ogni volta che vedo un pezzo di formaggio… Forse ha ragione Klara, la montagna non fa più per me!” le confesso la marachella. “Adelaide, da quand’è che non hai più le tue cose?” mi interroga a braccia conserte. Non ci avevo pensato. “Cazzo!” esclamo. “Cazzo, sì!”. Ogni tanto, da quando abita qui, anche lei dice le parolacce, ma solo in casi gravi. “Devi dirlo a Franz!” mi esorta. La guardo ancora più smarrita. Come fa lei a sapere che io e Franz Seseman abbiamo una relazione? […continua…]

Heidi lo dirà a Franz? Klara come prenderà la notizia? Faranno pace con il loro passato?
* lo scopriremo nella prossima e ultima puntata di giovedì 15 dicembre! *

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Scritto da: blog_user

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